Ciao! Sono Maria Chiara di Ita_ecco, e questo è il mio podcast sulla letteratura italiana: 10 puntate per dieci autori. Cominciamo!
Oggi voglio parlare di un’autrice a cui sono molto legata, cioè Grazia Deledda. Grazia Deledda ha una posizione strana nel panorama letterario italiano.
Lei ha vinto un premio Nobel nel 1926, quindi è considerata a livello interazionale come una grande scrittrice, eppure questo valore non le è riconosciuto totalmente in patria. In Italia, Grazia Deledda non è un’autrice canonica: per esempio, generalmente non si studia a scuola.
Quali sono i motivi? Innanzitutto, l’autrice non sembra pienamente inserita nel panorama letterario italiano: alcuni critici la definiscono decadente, però lei segue di più la lezione russa del 1800; dall’altro lato, a prima vista i suoi romanzi sono molto legati alla sua realtà d’origine, cioè alla Sardegna.
Proprio da qui partiamo per descrivere la sua biografia.
Grazia Deledda nasce a Nuoro, in Sardegna, nel 1871, da una famiglia agiata, benestante. Frequenta solo le scuole elementari in maniera regolare, poi continua a studiare con un professore privato a casa. In questi anni di formazione legge vari autori europei, soprattutto romantici (Hugo, Balzac, Dumas, Scott, Byron). Inizia anche a scrivere, prima poesie, in seguito novelle e romanzi, cioè opere in prosa. Il suo primo romanzo è del 1890, si chiama Stella d’Oriente ed è firmato con lo pseudonimo di Ilia di Sant’Ismael. A questo, seguono tanti altri romanzi, dapprima legati alla corrente letteraria del verismo, di cui abbiamo parlato nella puntata su De Roberto, poi di respiro sempre più ampio ed europeo.
La vita di Grazia Deledda è tranquilla, l’unico grande cambiamento sarà il matrimonio nel 1899 e il successivo trasferimento a Roma. Raggiungere la capitale significa per lei ampliare gli orizzonti, creare una propria forma espressiva e trovare il terreno adatto per le sue opere maggiori. Trascorre a Roma il resto della sua vita e muore lì nel 1936.
Deledda è una voce unica nell’Italia letteraria di quell’epoca: vi ritroviamo la lezione verista, decadentista, i bozzetti naturalistici di stampo romantico, e soprattutto la grande lezione russa, a livello di contenuti. Io ho scritto la mia tesi di laurea sulle traduzioni italiane dei romanzi del russo Dostoevskij, e per esempio una delle opere di Deledda si chiama “colombi e sparvieri”, con una citazione esplicita a un titolo russo. Il romanzo “umiliati e offesi”, infatti, nella prima traduzione è stato chiamato “colombi e corvi”. Questo solo per dire come il romanzo russo abbia influito su di lei, e forse per questo mi piace tanto.
Come sappiamo già, il verismo descrive il vero, la società, come in una foto, in maniera oggettiva, mentre la prosa decadente vede un’involuzione, quindi un ritorno verso se stessi. I protagonisti esplorano le loro esigenze, i loro desideri e anche il loro senso di frustrazione.
Nei romanzi di Grazia Deledda troviamo tutto questo, ma interpretato in un modo molto personale, forse perché viene da un posto remoto come la Sardegna, forse perché è una donna: i fatti narrati nei suoi romanzi sono molto reali, così come, a livello di lingua, i dialoghi, sempre diretti, bruschi e molto pratici, con inserimento coloristico di errori grammaticali, di imprecazioni locali ecc. Allo stesso tempo, fondamentale è il tema della lotta interna tra ciò che è giusto per la società, e quindi i valori morali, e i desideri della singola persona. Questo dissidio, questa contraddizione si trovano in tutti i suoi romanzi: Elias Portolu (1900), Marianna Sirca (1915), La madre (1920), Canne al vento (1913).
Proprio di questo ultimo romanzo voglio parlare. È la storia delle tre sorelle Pintor, Ruth, Ester e Noemi, e del loro servo fedele, Efix. Le tre sorelle fanno parte della vecchia aristocrazia ormai decaduta, e ne è un simbolo il palazzo fatiscente in cui abitano. Piano piano veniamo a scoprire che Efix nasconde un segreto (attenzione! qui inizia lo spoiler!!!): tanti anni prima, aveva aiutato un’altra sorella, Lia, a scappare dalla Sardegna per raggiungere il continente e, per salvarla, aveva accidentalmente ucciso il padre di lei. Efix passa la sua vita a espiare la sua colpa prendendosi cura delle sorelle restanti, tutte e tre nubili. Quando arriva la notizia del ritorno del figlio di Lia, don Giacinto, Efix pensa di poter finalmente espiare la sua colpa. Invece, Noemi, la più giovane delle sorelle, si innamora del nipote, ricambiata.
Da questo momento, prende il via quella lotta estrema nella coscienza della protagonista, e di tutti i protagonisti di Deledda. La lotta tra l’amore, che non conosce età, differenze sociali, legami familiari, ma solo la volontà di essere vissuto, e l’etica e la morale della società. Noemi non può amare suo nipote, perché è un consanguineo, perché è troppo giovane, perché non appartiene alla stessa casta sociale. L’unica cosa che Noemi può fare è sacrificarsi.
Qui, come negli altri romanzi di Deledda, l’essere umano non asseconda le sue pulsioni per vincere i pregiudizi della società e rinnovarla, ma si sacrifica senza lamenti, perché sa che l’ordine costituito, che è un ordine anche religioso e morale, non può essere scalfito. Quindi anche il sacrificio non è eroico, perché i protagonisti non sono fieri della loro rinuncia, semplicemente la accettano come qualcosa che deve essere.
Il romanzo è un’occasione per conoscere la Sardegna del secolo scorso, che per isolamento e costumi era molto simile alla mia regione, l’Abruzzo. Allo stesso modo, leggere questo romanzo aiuta a capire un po’ più se stessi. All’inizio della puntata ho detto le opere di Grazia Deledda sembrano molto legate alla Sardegna. Ma è solo un apparenza: questo romanzo, a mio avviso, non è sardo, non è italiano, ma universale. Credo che parli molto alle donne, ma più in generale a ognuno di noi.
Non dimenticare di ascoltare tutte le puntate del podcast di ita_ecco sulla letteratura italiana!
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