La letteratura italiana: Federico De Roberto

La letteratura italiana: Federico De Roberto

La famiglia Borbone delle due sicilie

Ciao! Sono Maria Chiara di ita_ecco e questo è il mio podcast sulla letteratura italiana: 10 puntate su vari autori!

Oggi vi racconto la vita e l’opera di Federico De Roberto, uno scrittore siciliano che ha ben dipinto l’isola del suo tempo e i suoi abitanti.

Federico De Roberto nasce nel 1861 (anno dell’Unità d’Italia) a Napoli da una famiglia siciliana di origini illustri.

De Roberto torna presto in Sicilia e vive a Catania tutta la sua giovinezza. Qui infatti si diploma e si iscrive anche alla facoltà di scienze fisiche e matematiche all’università. In questi stessi anni inizia a scrivere, sia letteratura che articoli di giornale.

Conosce due importanti letterati siciliani: Luigi Capuana e Giovanni Verga. Entrambi aderiscono e attuano i principi del verismo, il primo soprattutto in campo teorico, il secondo con romanzi e novelle.

De Roberto sente la loro influenza e, da un certo punto di vista, ne soffre anche: dalla critica è considerato un allievo, un discepolo di questi due grandi scrittori, perciò rimane sempre un po’ nella loro ombra.

Anche lui, infatti, scrive letteratura verista, però sente anche l’eco delle nuove mode o correnti che si stanno affermando, e per questo spesso le sue opere non sono apprezzate a pieno.

Ma prima di proseguire, chiediamoci cos’è questo verismo. Il verismo è una corrente letteraria che si sviluppa nella seconda metà dell’Ottocento in Italia, sotto l’influsso della letteratura naturalista francese (per capirci, Zola). Lo scopo della letteratura verista è rappresentare la realtà così com’è, come una fotografia, senza che l’autore intervenga a dare un giudizio su quello che succede. Non è quindi una letteratura di denuncia, perché il lettore non è guidato a prendere le parti di qualcuno. Se nel romanzo dell’Ottocento si ricercava il realismo (pensiamo a Flaubert o a Tolstoj), questo tipo di letteratura è un realismo estremo. Oltre che nei temi, anche il modo di scrivere dialoghi e descrizioni cambia.

Tuttavia, spesso i romanzi di stampo verista non hanno dato dei grandi risultati, perché molti autori hanno prodotto solo dei bozzetti descrittivi regionalisti, a volte anche idilliaci.

Al giovane De Roberto capita proprio questo: uno dei suoi primi scritti, che manda al giornale romano il Fanfulla di Capuana, non viene accettato perché è troppo siciliano, anche nel linguaggio.

La produzione letteraria di De Roberto soffre anche per un altro motivo: come ho accennato prima, quando lui scrive, si stanno affermando già altre idee, per esempio quella dell’introspezione psicologica, lo scavo nella profondità dei protagonisti del romanzo. De Roberto sente questo influsso, e infatti scrive delle opere, che oggi non sono molto conosciute, psicologiche: i Documenti umani (1888) e Ermanno Raeli (1889).

De Roberto segue anche la biografia dei suoi maestri, perché infatti lascia Catania e si reca prima a Roma e poi a Milano, dove entra nei circoli intellettuali. Scrive anche molti articoli giornalistici.

Nel 1892 torna a Catania e vi rimane per più di un anno a scrivere il suo capolavoro, che viene pubblicato nel 1894. Si tratta del romanzo i Viceré, di cui parleremo tra poco.

Questo è il suo secondo romanzo sulla famiglia dei viceré spagnoli, perché ne aveva già scritto uno chiamato L’illusione (1890) sulla capostipite della famiglia, e ne inizia a scrivere un altro, l’imperio, sull’ultimo discendente della dinastia, che però rimane incompiuto.

Amareggiato dall’incomprensione della critica e soprattutto dal suo insuccesso nel mondo del teatro, De Roberto si ritira a Catania e lì si lascia andare completamente: smette di vestirsi elegante o di frequentare i salotti, e la sua vena artistica si esaurisce. Muore nel 1927.

E ora, come promesso, voglio parlarvi del suo capolavoro, ovvero del romanzo I viceré.

Questo romanzo molto corposo narra la storia della famiglia catanese Uzeda di Francalanza, discendente dai viceré spagnoli, attraverso tre generazioni, in un arco di 30 anni: dal 1854 circa al 1880.  È un romanzo storico, che mescola gli affari pubblici, come gli echi delle rivolte del 1848, l’unità d’Italia e la cacciata del re Borbone, la destra e la sinistra al potere, alle vicende private della famiglia. Anzi, spesso la Storia reale si piega al volere degli Uzeda, e in altri casi loro la assecondando, cercando di trarne profitto.

Il romanzo si apre con la morte della principessa Teresa e con la divisione dell’eredità tra i figli e i cognati. Qui De Roberto trova il pretesto di descrivere ogni membro della famiglia: tutti sono corrosi dall’avidità, dalla smania di potere, perché sono abituati a considerarsi inarrivabili e regnanti per natura. Allo stesso tempo, fin da subito l’autore marca la descrizione dei membri della famiglia con una vena di decadenza fisica e anche mentale: gli Uzeda non hanno niente dell’antica bellezza spagnola dei Viceré; attraverso le generazioni, il loro aspetto ha perso di grazia, si è degradato: soltanto in rari casi nasce ancora un Uzeda degno fisicamente del nome che porta.

Tutti però, belli o brutti, sono segnati anche da una tara mentale, da un principio di follia: tra i figli di donna Teresa, Ferdinando vive in modo selvaggio e non si interessa di niente, salvo poi cambiare improvvisamente per la vita mondana sfrenata; Lucrezia si ostina a sposare un uomo che non è nobile solo per fare guerra alla famiglia, e poi all’improvviso inizia a disprezzarlo; il capostipite, il principe Giacomo, è superstizioso così tanto da aver paura della iettatura del figlio.

Tutti sono più o meno matti, o monomaniaci, ma trovano comunque il modo di stare dalla parte vincente della storia. L’odio e la sete di ricchezze materiali e di prestigio li mantiene in vita, non l’amore. Così, nella loro famiglia borbonica, più di uno tradisce la fede politica per avere un posto di spicco nella nuova Italia. Alla fine della prima parte del romanzo, quando il regno di Italia si instaura, il principe Giacomo dice al figlio: Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!

Per loro, non è importante aderire a un ideale e combattere per esso, ma è fondamentale rimanere attaccati alla loro posizione di dominio. Il messaggio che traspare dal libro è di un pessimismo forte e senza soluzioni: le cose cambiano senza cambiare veramente. I privilegi rimangono nelle stesse mani, che sia un Borbone o un Savoia al potete, che ci sia un governo di Destra o di Sinistra. Nonostante la degradazione della dinastia, pensiamo per esempio al parto mostruoso di una delle sorelle Uzeda, la Marchesa, queste persone così deboli di sangue e di mente sono e saranno sempre a capo della classe dirigente.

Esprimendo questa idea, De Roberto è molto vicino a un altro grande scrittore siciliano, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che nel suo Gattopardo scrive proprio le stesse cose, con toni diversi.

Io ho riletto recentemente il libro I viceré, e, forse per la mancanza esplicita del giudizio dell’autore, forse per le vicende raccontate, che sono sempre tra il tragico e il comico, ho avuto l’impressione che De Roberto si sia divertito a scrivere questa opera. Tuttavia l’ultima parte è più triste, e forse la morale pessimista è più evidente.

Il libro è difficile per chi non è italiano madrelingua, perché è scritto in una lingua piuttosto antica e spesso, per dare un effetto di vero, l’autore calca sulle pomposità linguistiche dei dialoghi. Tuttavia la storia è molto bella e avvincente, e rende la storia stessa d’Italia interessante, perché vista da una prospettiva non scontata

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1 commento finora

Svetlana Grigoreva Scritto il11:44 am - Marzo 4, 2022

Grazie Maria!!! Tu hai descritto bellissimo il capolavoro di Federico De Roberto, volevo leggerlo. Neanche mi conoscevo la sua biografia.

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