La letteratura italiana: Natalia Ginzburg

La letteratura italiana: Natalia Ginzburg

Torino Natalia Ginzburg

Ciao! Sono Maria Chiara di ita_ecco e questo è il mio podcast sulla letteratura italiana. 10 puntate su 10 autori.

Oggi vi racconto di Natalia Ginzburg, un’autrice che negli ultimi tempi sta trovando una nuova fortuna di pubblico e critica, credo per questioni legate al femminismo e alla donna che studia se stessa.

Natalia Ginzburg è stata una grande figura intellettuale del Secondo Dopo Guerra italiano, e le sue opere, anche le meno lette, sono speciali, perché hanno un tono apparentemente piatto, quasi lamentoso (come qualche critico aveva detto), ma riescono a dare voce alle inquietudini dell’essere umano, e direi in particolare della donna.

Natalia Ginzburg nasce a Palermo nel 1916, ma cresce a Torino. La sua famiglia è ebrea e intellettuale. Il padre è un professore universitario antifascista, e a casa sua si parla di politica, si discute, e spesso si fanno incontri importanti. Penso a Filippo Turati, membro del partito socialista italiano, che è stato ospite in casa Levi (questo è il cognome del padre).

Natalia Ginzburg passa un’infanzia tranquilla, abbastanza solitaria, sebbene frequenti scuole pubbliche, e inizia a scrivere poesie, genere che poi abbandonerà.

La nostra autrice racconta la sua infanzia, la sua famiglia, nel suo capolavoro, il romanzo-memoria Lessico Famigliare (con la g) del 1963.

Tra i vari fatti narrati qui, troviamo le sfuriate del padre, e anche la sua preoccupazione quando la figlia decide di sposare nel 1938, anno dell’emanazione delle leggi razziali in Italia, Leone Ginzburg, un intellettuale ebreo figlio di immigrati russi.

Leone la introduce, cioè la fa entrare, nei circoli intellettuali torinesi. In particolare la mette in contatto con la casa editrice Einaudi, con la quale lui stesso collabora da qualche anno.

I due hanno tre figli e Natalia prenderà il cognome del marito e con questo firmerà tutte le sue opere (infatti, il cognome da nubile di Natalia è Levi).

Nel 1940 Leone Ginzburg viene mandato al confino, cioè allontanato da Torino, per motivi politici e anche razziali. Tutta la famiglia Ginzburg va quindi in Abruzzo e ci resta per tre anni.

L’esperienza del confino è narrata in un racconto che fa parte delle Piccole virtù, raccolta uscita nel 1962. Questo piccolo saggio mi è caro, perché io sono abruzzese, e ritrovo nelle parole dell’autrice la verità amara della mia regione all’epoca della guerra.

Nel 1944 il marito di Ginzburg viene torturato a morte nel carcere romano di Regina Coeli, e Natalia Ginzburg prima si reca a Roma, e poi torna a Torino, dove va a lavorare alla sede Einaudi. A partire da questo momento, comincia a pubblicare i suoi racconti brevi e romanzi.

Vince alcuni premi letterari e nel 1950 si risposa con l’anglista, cioè lo specialista in lingua e letteratura inglese, Gabriele Baldini. Negli anni ‘60, che sono i più prolifici per la scrittrice, vengono pubblicati i già citati Lessico famigliare e Le piccole virtù (che contengono anche un bel ritratto scritto di Cesare Pavese e uno del nuovo marito, nonché una descrizione originale di Londra, vista attraverso i suoi occhi).

Natalia Ginzburg traduce inoltre alcune opere di Proust e collabora con il giornale Il corriere della sera.

Gli ultimi 20 anni della sua vita, dopo la morte del secondo marito, li dedica all’attivismo politico e viene anche eletta al Parlamento tra le file del partito Comunista.

Muore nel 1991.

La caratteristica principare dello scrivere di Natalia Ginzburg è far uscire il carattere dei personaggi attraverso le loro parole e espressioni fisse. È un procedimento evidente in Lessico famigliare già dal titolo: la scrittrice evoca tutti i componenti della sua famiglia attraverso le loro parole. La ripetizione delle frasi di ognuno crea il loro ritratto. Qualcosa di simile si vede anche nel racconto lungo Le voci della sera (e anche qui la voce, quindi la parola è presente già nel titolo).

Anche quando i fatti narrati sono più tristi o si fanno tetri, come quando racconta gli anni del confino e poi la vedovanza in L F, il ritmo del racconto è sempre simile a una ninna nanna, con tanto uso di imperfetto, per esempio, e le parti dialogate prendono molto risalto, anche nelle ripetizioni.

Per questo, ho deciso di parlarvi di una delle due commedie teatrali che Natalia Ginzburg ha scritto. Si tratta di Ti ho sposato per allegria, del 1965.

Questa è la storia di Pietro e Giovanna, che si sono sposati quasi all’improvviso, senza conoscersi veramente. Nella commedia non accade niente di particolare, eppure è diventata subito un successo, rappresentata a teatro e al cinema varie volte, e anche in volume continua ad essere riedita.

Ginzburg la scrive nell’estate del ‘64, subito dopo aver affermato in un giornale la sua avversione per i testi teatrali. Aveva infatti scritto che, ogni volta che provava a buttare giù la prima battuta di un possibile testo teatrale – e lei citava “piero: (due punti) Il mio cappello dov’è?” – si sentiva invadere dalla vergogna, perché seguiva lo schema di tutte le brutte commedie italiane. Eppure Ti ho sposato per allegria comincia proprio con questa battuta, e noi ci troviamo dentro questa coppia stravagante e tuttavia felice. E felice è Natalia Ginzburg stessa, del risultato. Lei scrive la sua opera pensando all’attrice sua amica Adriana Asti, e la considera una specie di distrazione dal suo lavoro solito, tanto che Ferdinando Taviani parla di “felice colpa” per riferirsi a questo testo.

Il segreto della commedia sta tutto nella preposizione del titolo: ti ho sposato PER allgeria, e non CON. È una costruzione atipica, che però rispecchia bene i personaggi femminili di tutta la produzione della Ginzburg: donne sofferenti, che però portano in sè il germe dell’allegria pura, così come avviene delle commedie del russo Cechov.

È una commedia che si legge in maniera veloce, è leggera seppure non allegra in tutte le sue parti, che ha tanti avvenimenti accennati dalle parole, ma mai intrapresi, e che consiglio a tutti.

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